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Fa paura il fenomeno delle baby gang, c'è un modo per arginare il disagio da cui nasce e se sì qual è? Risponde la psicologa

Cosa spinge ragazzi giovanissimi a ricorrere gratuitamente alla violenza facendone addirittura un vanto sui social e trovando l'approvazione dei coetanei? Lo abbiamo chiesto a Margherita Iezzi che spiega le ragioni di una crisi sociale e di comunicazione tra giovani ed adulti

“La violenza è un atto contrario alla parola”. Partiamo da questa affermazione che a IlPescara fa Margherita Iezzi,psicologa e psicoterapeuta-psicoanalitica per bambini, adolescenti e famiglie, docente all'università d'Annunzio e membro dell'associazione italiana di psicoterapia psicoanalitica dell'infanzia, l'adolescenza e la famiglia (Aippi), per tentare di analizzare almeno per linee generali il fenomeno delle baby gang.

Un problema che cresce in modo esponenziale e su cui a lanciare l'allarme è stata nei giorni scorsi anche la presidente della corte d'appello Fabrizia Francabandera in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Pescara non è esente dal fenomeno come testimoniano diversi fatti di cronaca, incluso quello avvenuto nelle scorse settimane nella zona vecchia della città. Un episodio che spinse ad intervenire persino il ministro Matteo Salvini. Quando non è violenza fisica è vandalismo fine a stesso. Atteggiamenti in cui il fattore comune è non solo la totale indifferenza del male che si fa, ma anche il vanto che ne deriva quando l'atto violento, preventivamente ripreso con il cellulare, diventa protagonista sui social in un tam tam fatto dei tanti like di chi, seppur non presente, apprezza quel comportamento deviato. Un aspetto questo che va altrettanto attenzionato.

Alla luce di una cronaca che ci regala sempre più spesso storie di violenza anche inaudita e scaturita dalla banalità, come una spinta involontaria o una parola sbagliata e a volte persino programmata come avvenuto a Rovigo dove alcuni alunni hanno sparato con una pistola ad aria compressa ad una professoressa condividendo il video su Tik Tok, l'ovvia domanda che ci si pone è perché ragazzi tanto giovani ricorrono a una violenza così barbara: ci sono delle responsabilità che esulano da quelle di cui loro stessi si macchiano? Di questo abbiamo parlato con Iezzi cercando di dare risposte non semplici in un quadro complesso tanto quanto lo è oggi la nostra società.

Che nell'adolescenza ci sia il bisogno di fare “gruppo”, ci spiega, è normale. Ciò che è un chiaro segno “disfunzionale” è il fare gruppo si traduca in violenza gratuita. “Sembra che questi ragazzi – afferma Iezzi -, in assenza di qualsiasi motivazione o progettualità cerchino qualcosa che li faccia sentire vivi là dove c'è una sensazione di enorme vuoto”. Questi episodi, aggiunge, “sono il segnale di una crisi sociale ed educativa importante: si annulla il valore della parola e del pensiero e ci si trova di fronte alla violenza. Siamo di fronte alla spia di una crisi tra generazioni in cui sembra che i valori degli adulti non trovino alcuna base di appoggio”.

L'esistenza dei social, in questo scenario critico e fatto di “vuoto”, diventa quindi un'arma in più che rischia di sfociare, ed è accaduto, in un fenomeno di emulazione laddove la violenza non solo appare normale, ma anche giustificata e persino divertente. Una volta postati, come si dice in gergo, quei comportamenti “diventano motivo di orgoglio ed ostentazione e cioè il contrario di ciò che è un atto negativo – chiosa Iezzi -. Non c'è senso si colpa, ma il contrario dato che generano un seguito per cui non è approvato solo da chi lo fa, ma anche da chi lo guarda”.

Di qui la domanda iniziale: c'è una responsabilità e se sì di chi è? Inutile sperticarsi a puntare il dito perché responsabilità le abbiamo tutti: le ha la società, le hanno le famiglie e le hanno le istituzioni con queste ultime che, in un certo senso, ne hanno una in più e cioè quella di non dare le risposte necessarie perché si agisca in termini di prevenzione e non si debba sfociare necessariamente nella repressione. Ci stupisce sentir dire da un'esperta che si occupa proprio di infanzia e di adolescenza che, anche a causa delle ansie che il covid ha trasmesso agli adulti e che i bambini inevitabilmente hanno percepito e senza dimenticare il lungo periodo di isolamento che hanno vissuto, persino i più piccoli mostrano comportamenti aggressivi. Ecco che allora il supporto alle famiglie diventa fondamentale in una società complessa come la nostra in cui anche seguire tutto quello che i nostri figli fanno con i loro telefoni, controllare tutto ciò che vedono e confrontarsi con loro su questi temi diventa difficile. In parte c'è anche disattenzione, sottolinea Iezzi, e troppa indulgenza da parte dei genitori che quei segnali sembrano proprio non volerli cogliere e che invece sono il segno di un disagio sociale che, è inutile negarlo, c'è. Se ci sono adulti “troppo assenti” e se si escludono quei ragazzi che hanno problemi psicopatologici che andrebbero comunque presi nei tempi, la difficoltà sembra esserci proprio nella comunicazione tra giovani e adulti. Qualcosa, insomma, non funziona come dovrebbe nella comunicazione perché la comunicazione o non c'è o non passa per il giusto canale. 

“Genitori ed insegnanti non riescono a trasmettere quei messaggi che possono rappresentare un fattore protettivo rispetto a questo degrado”, spiega ancora Iezzi entrando quindi nel merito di quella “responsabilità istituzionale” di cui proprio con IlPescara ha più volte parlato. Sì perché, è bene ricordarlo, quando ci si trova di fronte a disagi tanto forti se non si finisce in una baby gang si rischia di finire in una spira depressiva che spinge sempre più giovani a togliersi la vita. “Bisogna individuare dei luoghi per poter aprire riflessioni, per poter dare sostegno a ragazzi, famiglie e insegnanti. Vanno potenziati i servizi di prevenzione e di ascolto”, torna a dire parlando in particolare del ruolo della sanità pubblica e della necessità di potenziare l'assistenza in merito al tema “salute mentale” che oggi non è o comunque non deve più essere un tabù. Ricorrere ad un percorso professionale non vuol dire essere “matti”, vuol dire spesso solo aver bisogno di aiuto. Un aiuto che va garantito a chiunque perché, torna a ribadire, non tutti hanno le possibilità economiche per essere seguiti privatamente. Accade così che genitori e figli si ritrovino soli nell'affrontare situazioni in cui, soffocati da quella stessa solitudine, è difficile trovare le giuste risposte.

Se intervenire su quei ragazzi che crescono in contesti dove la violenza “è” il valore e cioè dove c'è malavita e omertà è complicato, non è così negli ambienti cosiddetti sani. Nelle baby gang, infatti, finiscono spesso anche ragazzi insospettabili che provengono da famiglie che vivono in contesti sociali normali ed equilibrati. “Compito dell'adulto è quello di ridare spazio al pensiero e alla parola, anche attraverso la comprensione di ciò che è successo. Non basta la repressione, serve l'elaborazione”. Utile dunque anche parlare con i proprio figli di questi fenomeni perché non possiamo sapere se hanno già ricevuto una notifica sui social, se hanno riso di quel gesto violento non comprendendone la gravità vista la giovanissime età. Un'età di formazione. Parlarne e far capire cosa c'è di sbagliato è già un passo importante, ma come detto non sufficiente.

“Per qualsiasi genitore ricevere quella telefonata in cui gli si comunica che il figlio è stato fermato perché ritenuto responsabile di un'aggressione è uno shock”, spiega ancora Iezzi ribadendo quel concetto di sottovalutazione dovuto all'indulgenza che caratterizza oggi troppi adulti che si trovano poi di fronte al problema quando è già sfociato in un comportamento deviato. Ecco che allora se l'attenzione da parte dei grandi deve essere alta, ritorna ancora una volta il monito alle istituzioni “che si ricordano di dover fare qualcosa nell'emergenza – conclude -. Bisogna prevenire il crollo e in questo senso avere lo psicologo a scuola, ad esempio, è importantissimo. Reprimere quando una violenza si consuma sì, ma bisogna lavorare prima perché quella violenza non si compia affatto e considerando la giovane età di questi ragazzi un intervento preventivo è più che possibile”.

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