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Domenica, 28 Aprile 2024
Cronaca

Dopo solo 8 anni di carcere permessi lavoro per l'assassino di Jennifer Sterlecchini, la rabbia del fratello

Colui che nel 2016 ha ammazzato con 17 coltellate la giovane Jennifer sta già usufruendo delle misure alternative nonostante la condanna a 30 anni di reclusione: il fratello Jonathan si chiede che tipo di giustizia sia questa

«Lui esce e lei è sottoterra. La vostra “bella” Italia». Questa l'eloquente frase condivisa, insieme a una bella foto della sorella Jennifer, da Jonathan Sterlecchini in riferimento al fatto che l'assassino, condannato a 30 anni, sta già usufruendo dei permessi lavoro dopo solo 8 anni dall'omicidio.
La condanna di Davide Troilo a 30 anni di reclusione è stata confermata anche dalla Cassazione.

Una condivisione, quella fatta da Sterlecchini che ha avuto un migliaio di reazioni, centinaia di commenti e decine di condivisioni.

Il sentimento comune è quello dell'incredulità visto che la violenza di quanto accaduto in quella casa al confine con Sambuceto è ancora presente in tante persone. La povera Jennifer era tornata in quella abitazione insieme alla mamma e a una amica per riprendere le sue ultime cose, ma quella scelta si rivelò mortale visto che il suo ex compagno, dopo aver chiuso la porta di ingresso, lasciando così fuori mamma e amica, trafisse con 17 coltellate il corpo di Jennifer. Tornado a oggi, il fratello Jonathan, parlando in generale, ritiene che questa non sia giustizia, o almeno non la giustizia nella quale lui e i suoi familiari hanno sempre creduto. «Parlamo tanto di femminicidi», dice Jonathan, «diciamo sempre che l'assassino o il violento era un bravo ragazzo, poi facciamo i funerali, le fiaccolate, installiamo le panchine rosse ma poi quando la giustizia deve dire la sua fa uscire un assassino dopo 8 anni? Qui non applichiamo la pena di morte ma così la applichiamo al contrario nel senso che le vittime e i loro familiari vengono condannati. Ho fatto quella condivisione dopo che l'ennesima persona mi ha segnalato di come colui che ha ucciso mia sorella stesse già uscendo per andare a lavorare, ma non immaginavo potesse accadere tutto ciò. Ma rivolgo una domanda alla giustizia, nella quale abbiamo sempre creduto, che tipo di giustizia è questa? Che cosa debbono pensare i familiari delle vittime di queste situazioni? Non dovremmo indignarci per una cosa del genere?».

La spiegazione del garante dei detenuti

Come noto all'interno del carcere, chi è sottoposto a detenzione, può intraprendere un percorso di riabilitazione e di questo abbiamo chiesto, in via generale, al Gianmarco Cifaldi, il garante dei detenuti per l'Abruzzo. «Deve esserci un percorso di riabilitazione», spiega Cifaldi, «visto che c'è la giustizia riparativa e chi ha commesso il delitto deve fare anche incontri con una famiglia che ha subito un caso simile per comprendere le conseguenze delle azioni». Per inciso la giustizia riparativa o giustizia rigenerativa è un approccio che consiste nel considerare il reato principalmente in termini di danno alle persone. Da ciò consegue l'obbligo, per l'autore del reato, di rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta. 
«Anche i familiari di chi ha commesso l'omicidio subisce conseguenze», ricorda Cifaldi, «e in Italia stiamo percorrendo questa strada che è di tipo anglossasone. Nel caso specifico va anche detto che non si tratta di un killer o di una persona che uccide abitualmente, il delitto è legato a un rapporto morboso di possesso. Duunque lo Stato avvia dei processi che possano essere di aiuto per la vittima ma anche per le famiglie coinvolte. È bene anche ricordate come molte leggi siano state fatte per la tutela delle vittime in questi ultimi decenni, pensiamo ai reati di stalking e mobbing. Solo negli ultimi anni l'Italia si è dotata di nuovi strumenti normativi, da circa 30 anni esiste tutto questo ma dobbiamo fare ancora tanto. Se la persone durante il percorso riabilitativo mostrano pentimento e volontà di reinserirsi va data questa possibilità. Il carcere è formato da diverse componenti: la polizia giudiziaria, la sezione riabilitativa, il comandante, gli educatori sociali che entrano in carcere. Tutto svolto sempre sotto la il controllo del magistrato di sorveglianza, l'unico che può decidere se un detenuto deve stare dentro o può uscire. Ogni 6 mesi od ogni anno, a seconda dei casi, viene fatta una relazione che può portare a delle misure alternative con permessi per lavori sia interni che esterni al carcere: permessi per lavoro o lavori socialmente utili. Si esce la mattina e si rientra la sera. In caso di mancato rientro c'è il reato di evasione. Si fa la messa alla prova, si dà fiducia al carcerato. Si valuta il soggetto caso per caso e la decisione, dopo la consultazione con tutta l'equipe, è sempre il magistrato di sorveglianza a decidere. Si valuta il percorso di conversione. Di solito questo accade quando mancano 4 anni alla fine della pena per agevolare il rientro nella società.
Infine Cifaldi manda un messaggio ai familiari delle vittime: «Nel mio ruolo non esprimo giudizi sul caso specifico, chi è preposto a questa funzione è il magistrato di sorveglianza. Bisogna capire che non è facile accettare certe situazioni, ma lo dico a vantaggio dei familiari della vittima, che l'odio non aiuta a superare il lutto».

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