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Cronaca

Un pugno in faccia e la frattura del setto nasale, il racconto dell'infermiere aggredito in pronto soccorso

Se fisicamente è raro si arrivi a una tale violenza, le aggressioni verbali sono ormai la "normalità": "La gente è esasperata e una reazione te la puoi aspettare da chiunque, il nostro è l'ultimo avamposto della civiltà e in molti non vogliono più lavorarci"

Qualche giorno fa, mentre era di turno, si è visto arrivare un pugno in pieno volto: frattura del setto nasale e una prognosi di circa dieci giorni. Eppure l'infermiere 42enne aggredito al pronto soccorso di Pescara ha una voce calma e serena al telefono. E' lui a raccontarci di quella disavventura avvenuta in corsia, ma se per chi scrive un evento così sembra essere straordinario, per lui è quotidianità. Le aggressioni, ci dice, sono una sorta di distorta “normalità”. Aggressioni che se fisiche e di questa portata lo sono raramente, con le parole sono esattamente il contrario.

Se quel turno di notte gli è costato il setto nasale, due giorni prima, nel turno di mattina, ha ricevuto un'altra delle tante minacce che qualsiasi infermiere in pronto soccorso si sente rivolgere: “un uomo mi ha detto: mi ricorderò della tua faccia”. Sorride mentre lo racconta, quasi come se fosse diventato tutto routine, e routine a quanto pare la violenza verbale lo è diventata davvero. Il pugno che al 42enne è costato il setto nasale non se lo aspettava, ammette, ma la tensione era già alta quando l'aggressione si è consumata. “Quando ho attaccato, alle 21, lui era già in pronto soccorso da diverse ore. Ero flussista quella sera, ovvero il mio compito era quello di controllare i pazienti già triagiati e in attesa di visita per accertare un eventuale peggioramento o miglioramento delle condizioni. Era steso a terra, aveva un'alitosi alcolica e chi si trovava con lui non ce la faceva più: era molesto e stava infastidendo tutti. Gli altri ci chiedevano di cacciarlo. L'ho invitato ad alzarsi, ho provato a metterlo sulla sedia, ma non c'era niente da fare. Allora l'ho messo su un lettino e insieme ad una collega lo abbiamo portato in un'area dove non c'erano persone. Più cercavamo di calmarlo più si agitava. Quando gli abbiamo detto che doveva attendere ancora un po' è letteralmente balzato dal fondo del lettino e ha afferrato una sedia. Sono riuscita ad afferrarla, ma subito dopo mi è arrivato il pugno in faccia”.

La voce è ancora calma e ci chiediamo perché. La risposta è ancor più sconcertante: “questo è normale per noi. Intendo l'avere a che fare con questo tipo di persone”. Lui in pronto soccorso lavora da 8 anni, prima ad Ancona e dopo a Pescara e sì, ammette, negli anni le cose sono cambiate. Il disagio sociale, è un fatto, è aumentato e anche le lunghe attese di chi accede al pronto soccorso. Un mix che si traduce in aggressività nei confronti di chi è in prima linea: gli infermieri del pronto soccorso. Paura ce n'è, ammette l'infermiere e seppur ribadisce che ormai per chi lavora da tanto in corsia d'emergenza la distorta normalità dell'abitudine a subire vessazioni si è affermata, in coscienza “lavorare così non è possibile. C'è tensione. Il pronto soccorso è diventato l'ultimo avamposto della società civile – chiosa -. Chi arriva può avere qualsiasi reazione e ad averla può essere anche la persona da cui non te lo aspetti”.

Gli chiediamo se visti i bandi che vanno continuamente deserti per cui nessuno sembra voler andare ad operare in pronto soccorso, davvero c'è tutta questa reticenza e la risposta non può che essere affermativa. Anzi, ci spiega, “tanti che lavoravano in corsia da 20 anni sono andati viva e se vanno via loro vuol dire che proprio non ci se la fa più. Quelli che arrivano dopo due mesi spesso vanno via dicendo che quello non è il loro ambiente”. Il 42enne sa bene che per chi attende semplice non è e che si creano attese lunghissime, ma accade anche a causa della presenza di tante persone che arrivano in codice verde o giallo. A rendere davvero complicate le cose, aggiunge, è il fatto che oggi il pronto soccorso non è più solo un reparto di emergenza, ma un reparto vero e proprio. Un problema che l'ex primario Alberto Albani anche parlando a IlPescara, aveva denunciato più volte. “Non facciamo più solo l'attività di pronto soccorso. Ormai siamo il reparto di qualunque cosa perché con il covid non si possono più riempire i reparti ordinari. Quella è stata la mazzata finale”.

Non è tanto la carenza degli infermieri a pesare, conclude, ma piuttosto quella dei medici perché quando ce ne sono due o tre e ci sono centinaia di persone in attesa per un esame, tra l'iter per arrivare a farla la visita e la quantità di visite da fare, il caos diventa inevitabile. Se a questo si aggiungono i troppi che in pronto soccorso arrivano senza urgenze, il caos diventa inevitabile a discapito di chi, magari, ha davvero bisogno di essere assistito e di chi quell'assistenza deve garantirla. Servirebbe dunque più sicurezza? "Di sicurezza ce n'è" e ironizzando aggiunge: "l'alternativa sarebbe darci una guardia del corpo a testa”, come a dire che non è avere più addetti alla sicurezza che può placare l'esasperazione di alcuni e i gravi disagi di chi arriva in preda ad alcol e droga.

Insomma ci ha rimesso il setto nasale, vive una distorta “normalità” in cui l'aggressione, soprattutto verbale, è quotidianità, ma sa bene che le persone sono esasperate e che le attese sono lunghe. Chi arriva in un pronto soccorso e chi dentro ci lavora sono, di fatto, la faccia di una stessa medaglia in cui “disagio” sembra essere la parola che accomuna tutti.

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