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Mercoledì, 24 Aprile 2024
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Essere universitario durante la pandemia, la testimonianza di uno studente

Riportiamo ciò che ci ha raccontato il giovane pescarese Riccardo Varveri: "Noi siamo la spina dorsale di questo Paese che ha smesso di guardarci in faccia da molto, troppo tempo" con "un futuro che oggi ci appare sempre più buio"

Essere universitario durante la pandemia, la testimonianza di uno studente. Riportiamo, infatti, qui di seguito ciò che ci ha raccontato il giovane pescarese Riccardo Varveri:

C'è un silenzio assordante su una categoria di cittadini che tuttavia sta affrontando la pandemia come tutti gli altri. Anzi, quasi peggio. Quella degli studenti universitari. Si sono spese tante parole sui medici (sacrosante, forse non basteranno mai), sui lavoratori che continuano a produrre quel poco di Pil che tiene l'economia sospesa sull'orlo del precipizio, sui lavoratori dipendenti, sulle partite Iva, sui dipendenti pubblici, sugli anziani, sui genitori, sui bambini, sugli studenti delle scuole primarie e secondarie. Non una parola, invece, sugli studenti universitari.

Molti di noi, è vero, lo sappiamo, sono lì per poter ritardare l'ingresso nel mondo del lavoro. Molti, semplicemente perché hanno la possibilità economica di sostenere le spese. Altri, però, come me, dentro le aule dell'università ci vivono perché credono fortemente in quel valore in più che lo studio può darci. E quindi lavoriamo nel weekend per poter racimolare qualche soldo in modo da poterci pagare le spese dei libri, le tasse, gli affitti, e per poter gravare il meno possibile sullo stipendio dei nostri genitori. Anche in nero, anche sottopagati. Ma lo facciamo.

Noi studenti universitari siamo la spina dorsale di questo Paese che ha smesso di guardarci in faccia da molto, troppo tempo. Abbiamo la responsabilità culturale di un Paese che non ci considera, neanche nella figura di una sua Ministra, che in conferenza stampa non fa altro che parlare di scuola (e in quali termini, poi). Fra di noi ci sono anche i futuri medici di questo paese, quelli che dovranno affrontare le future pandemie (si spera, il meno possibile), che dovranno curare le future malattie. Nel mio ateneo, a Bologna, siamo circa 80.000 persone che inseguono i propri sogni e un futuro migliore. Un futuro che oggi ci appare sempre più buio.

Le nostre giornate trascorrono con la testa china sui libri, piegati sotto la luce di lampadine che ci fanno compagnia fino a tarda notte. Teniamo la faccia fissa su uno schermo per ore e ore per poter affrontare le lezioni che fino a qualche mese fa erano anche l'ora d'aria della nostra sessione: ci permetteva di mettere la testa fuori di casa, sgranchire le gambe per poter raggiungere l'Ateneo. In ogni caso, cambiare aria. Ora questo non ci appartiene più. L'aria rimane la stessa, viziata, e fra l'aula studio e l'aula lezioni ci sono 3 passi, quelli che servono per passare dalla scrivania di camera nostra alla libreria. Nessuna, nessuna parola su di noi, che in questo paese ci crediamo e a questo paese abbiamo affidato la nostra anima, la nostra mente, la nostra formazione, quello che siamo.

Non abbiamo promozioni certe a fine anno (chiaro, neanche le vorrei), viviamo sospesi in quel limbo rappresentato dal silenzio di tutti, tra uno spostamento di esame e l'altro, fra una lezione rimandata e l'altra, fra una sessione incerta e una discussione della tesi che perde la propria aurea sacra. Tutto smaterializzato. Non abbiamo un messaggio di forza. La forza la troviamo in noi stessi, noi studenti universitari, perché abbiamo ben in mente quello che vogliamo. Sappiamo in che grande paese viviamo e come vogliamo migliorarlo. Passiamo le nostre giornate a confrontarci, a condividere l'angoscia di una vita che ha perso il proprio ritmo, ha ridotto gli spazi in una scala che è diventata soffocante. Sentiamo il soffitto schiacciare la nuca e l'aria viziata.

Molti di noi non sono tornati a casa per paura di contagiare i propri cari, molti continuano a pagare affitti (in alcuni casi spropositati per quantità e qualità degli spazi concessi) nonostante il lavoro sia fermo, per loro e per i propri genitori. Non è facile, ve lo assicuro, ve lo assicuriamo. Lo studio sembra un privilegio non stancante. È vero, lo è, ma lo è amare lo studio, l'amore per la conoscenza e non l'accesso alla conoscenza. Ma è anche stancante, logorante fisicamente e senza la nostra ora d'aria, fuori è ancor più logorante. Senza staccare dalla routine schermo-libro. Anche il solo contatto umano, lo scambio di idee.

Domani ci troverete nei servizi di cui usufruirete, alcuni probabilmente cureranno il vostro corpo. Ricorderemo questo periodo quando si tornerà alla normalità e lo studio ci sembrerà ancora più bello. Acquisirà un plus-valore, quello dello scambio di opinioni, del contatto fisico. Platone, in fondo, nel Simposio parla di un Agatone che chiede a Socrate di passare il sapere attraverso i corpi. Ci ricorderemo di tutto questo. E siccome la conoscenza è anche amore e riconoscenza, sapremo dire, nonostante tutto, un ennesimo, enorme, grazie.

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