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La psicologa: "Prendere in affido un bambino sfuggito dalla guerra è un onore, ma anche un onere"

Con Margherita Iezzi, membro Aippi e docente della d'Annunzio, affrontiamo il tema: "Servono fondi per creare una task force psicologica per i bambini e le famiglie che li ospiteranno"

Alcuni hanno già smesso di parlare, altri non dormono più, altri ancora hanno incubi tutte le notti. Nei bambini che negli occhi hanno l'orrore della guerra, i segni dei traumi iniziano a farsi vedere e in chi ancora non ha elaborato, ma interiorizzato sì, il dramma che l'ha colpito, si manifesterà. Tanti sono diventati improvvisamente orfani e molti di quelli che non lo sono, non sanno quando e se potranno tornare a casa, ritrovare i legami familiari e ricostruire una vita sulle macerie di ciò che resta e che, inevitabilmente, resterà una ferita indelebile. Vederli, quei bambini, colpisce tutti e l'emotività spinge molti a voler fare qualcosa. Tanti, anche a Pescara, si propongono per prendere in affido le vittime più innocenti di ogni guerra, ma non è l'emotività la leva su cui fare forza. Prendere un bambino con traumi così grandi in affido è una grande responsabilità e l'amore non può bastare. Ce lo spiega Margherita Iezzi, psicoterapeuta psicoanalitica per bambini adolescenti e famiglie e docente dell'università d'Annunzio. Con lei parliamo proprio del tema dell'affido di queste vittime di guerra. Sì perché in guerra, per essere vittime, non si deve necessariamente morire. Loro, ci dice, quello che hanno visto non lo dimenticheranno così come non lo ha mai dimenticato un deportato ad Auschiwitz che anche a 90 anni, raccontandolo, rivive il dolore di momenti così lontani nel tempo, ma così vicini nell'anima. Prioritario, dunque, garantire tutto il supporto necessario non solo ai bambini che arrivano, ma anche alle famiglie che li accolgono.

Per questo sarebbe necessario, spiega la Iezzi, stanziare dei fondi supplementari per creare una sorta di task-force psicologica che metta insieme pubblico e privato, quindi anche i tanti psicologi che ci sono sul territorio oltre alle associazioni, per non lasciare sole queste famiglie che, da parte loro, prima di prenderla una decisione come questa, dovrebbero fare dei colloqui e, soprattutto, spiega ancora la psicologa, “valutare interiormente la propria solidità emotiva. Accogliere vuol dire che devi prenderti un po' di quel dolore e devi restituirlo sotto una forma alleggerita. Bisogna sentirsi abbastanza solidi da sapere che si va incontro ad una scelta lodevole e generosa, ma anche difficile”. E sul territorio si lavora già per cercare di mettere in campo azioni concrete che sostengano le famiglie affidatarie e i bambini affidati. Contatti ci sono già stati con il Comune, ad esempio, per l'inserimento nelle scuole di questi bambini. La Iezzi, che è anche membro dell'associazione italiana di psicoterapia psicoanalitica dell'infanzia, l'adolescenza e la famiglia (Aippi) ci dice che presto si terrà una riunione per decidere come muoversi e strutturare gruppi di azione, anche in città e che contatti li ha già avuti con l'ordine degli psicologi che vuole fare la sua parte su tutto il territorio regionale. Certo è che accogliere un bambino ucraino, oggi, complice anche la lingua diversa, può significare anche trovarsi di fronte a forme di depressione, rabbia, chiusura e rifiuto. Niente feste al loro arrivo, consiglia Iezzi: bisogna fargli vivere quanto più possibile una sorta di normalità. Una normalità che, per loro, si è cancellata in un attimo. Non serve fargli troppe domande, serve ascoltarli e non bisogna trattarli come vittime che meritano compassione, ma come ciò che sono: bambini. “Fino a due settimane fa loro facevano una vita normale – spiega Iezzi -. Hanno subito traumi violentissimi perdendo spesso anche i genitori. Sono stati sradicati dal loro territorio e non hanno scelto di venire, hanno dovuto farlo”.

Un “retroterra emotivo”, così lo chiama la dottoressa, che è l'onere che ci si prende quando con onore si sceglie di prendere in affido uno di questi bambini. E l'età, sia chiaro, non fa differenza. Il trauma c'è sempre, persino nella pancia delle madri, sottolinea citando le terribili immagini del bombardamento dell'ospedale pediatrico di Mariupol. Insomma, prima di accogliere un bambino sfuggito alla guerra, “bisogna conoscere qualcosa della sua storia, sapere se ha dei legami e far sì che li senta vicini” e se si hanno figli in casa l'esperienza, se vissuta nel mondo giusto, può certo essere importante e formativa, ma si deve sapere che gelosie potrebbero nascere. Ecco perché, anche saper comunicare bene con loro è importante e farlo nel modo giusto richiede il sostegno dei professionisti. “Il trauma della guerra è una tragedia infinita, nessuno è rimasto indenne di quella popolazione. Certo possiamo dire che se un bambino per dieci anni ha vissuto serenamente nella sua famiglia potrà fare appello a qualcosa che ha già costruito dentro di sé: il trauma è per tutti, ma più è precoce più è grande”. Insomma prendere in affido un orfano di guerra o un bambino che, improvvisamente, ha visto stravolta la sua normalità e che oggi è lontano dagli affetti più grandi, è un gesto meraviglioso, ma che va ponderato e che, soprattutto, non si può affrontare nella solitudine. E una volta a casa, raccomanda infine la Iezzi, è importante tenerli lontani dall'orrore e far sì che, neanche in televisione, posano vedere la distruzione di tutto ciò che per loro era "casa".

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