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Lunedì, 29 Aprile 2024
Cultura

Il Vate è sempre con noi: Pescara celebra gli 85 anni dalla morte di Gabriele d'Annunzio

Il poeta e intellettuale pescarese, diventato un simbolo e un'icona della città, ci lasciava il 1° marzo 1938

Oggi si celebra l'85esimo anniversario della morte di Gabriele d'Annunzio. Il 1° marzo 1938, infatti, moriva il Vate. Poeta e scrittore simbolo e icona della nostra città, è stato sicuramente uno dei più grandi pescaresi di sempre. D'Annunzio è riuscito nell'intento più ardito: quello di essere immortale. Con le sue opere e con le sue “pietre”, ossia la ristrutturazione della sua casa natale a Pescara e la creazione del sontuoso Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera, ha conquistato non solo i suoi contemporanei, ma anche i posteri.

Profeta come solo i grandi sanno essere, Gabriele d'Annunzio preannunciò che la propria opera sarebbe stata compresa a fondo solo dopo 70 anni dalla sua scomparsa. Ancora oggi, infatti, si scoprono aspetti sorprendenti della sua vita e dei suoi scritti che ce lo rendono non solo attuale, ma addirittura caro al nostro spirito. Le sue opere sono studiate in tutte le università del mondo, non solo in Italia. Dopo un periodo di oscurantismo probabilmente dettato anche da ragioni politiche, il Vate oggi è ormai riconosciuto a pieno titolo come uno dei principali intellettuali italiani.

Il noto attore Sergio Castellitto, che ha interpretato il Vate nel film ‘Il Cattivo Poeta’, opera prima di Gianluca Jodice, ha dichiarato: «Mai c’è stato un poeta tanto adorato in vita come una rockstar, un genio a 360 gradi, come Gabriele D’Annunzio, e tanto odiato post mortem. Elsa Morante diceva che era un imbecille e Pier Paolo Pasolini lo detestava, ed è una cosa strana perché D’Annunzio e Pasolini avevano qualcosa in comune: erano entrambi poeti-soldato, pronti a uscire dalla trincea e a prendersi un colpo in fronte».

Un artista dalla grande sensibilità

Da Pescara al Collegio Cicognini di Prato, dove fu mandato dal padre che aveva intuito le sue grandi doti, dalla prima raccolta di poesie “Primo Vere” ai primi anni romani e al successo fra la provinciale borghesia italiana di fine '800, dall’amore per il lusso agli amori mutevoli e disinvolti tra cui Isadora Duncan, Luisa Casati, la moglie Maria Hardouin di Gallese e l’amante Luisa Baccara. Per lui le donne sono al tempo stesso tormento e delizia. Anticipatore e modernizzatore di costumi, mode, tendenze, dal vestiario alla politica (pochi sanno del suo passaggio plateale dalla destra alla sinistra, a fine Ottocento), d’Annunzio viene tuttora giudicato anche per un’adesione al fascismo in realtà mai avvenuta: dalla sua “Impresa di Fiume”, Mussolini prese riti e miti ma non la Carta del Carnaro, una delle costituzioni più avanzate del Novecento, né le due parole che d’Annunzio faceva seguire a eja eja alalà: "viva l’amore!".

L'immensa sensibilità di d'Annunzio coinvolgeva anche il mondo dei cani: era grande la sua passione per questi animali, la dedizione con cui li allevava e allenava, il suo coinvolgimento nell’ambiente del coursing, senza contare le amicizie e gli amori nati attorno a questo interesse e condiviso da altre persone, soprattutto membri della buona società francese. Nel 1914 Gabriele d’Annunzio diceva: «Il libro che sto scrivendo ora, che sarà pubblicato a novembre, parla dei levrieri, i cani che amo così tanto. Lo intitolerò “Vita dei cani illustri”. Tutta la mia vita è stata intrecciata con la vita dei miei levrieri. L’immaginazione si affida al levriero come ad un genio benevolo. Ho rilevato la loro strana visione soprannaturale nella loro inspiegabile resilienza e nell’agitazione in certi momenti della giornata e in particolari luoghi. Ho vissuto con loro così tanto che mi sembra di aver capito le loro conversazioni e le loro piccole astuzie».

E infine la Majella, che rappresenta, per tutti gli abruzzesi, una montagna sacra: la montagna madre. E proprio la Majella è la montagna di Gabriele d'Annunzio, che la definiva "ceppo originario". D'altronde la natura ha sempre avuto un'innegabile importanza nelle sue opere, dal trabocco citato nel "Trionfo della morte" fino, ovviamente, al mare. 

D'Annunzio e la guerra

Il Vate seppe narrare con estrema lucidità la tragedia del primo conflitto bellico. Ciò che sconvolge è che quei racconti della guerra, a cent'anni di distanza, sono tremendamente attuali dopo ciò che sta accadendo in Ucraina. Forse anche perché cambiano gli uomini e le epoche, nonché le tecnologie, ma il dramma dei bombardamenti, con il relativo contorno di morte e devastazione, resta purtroppo sempre uguale. E così il genetliaco dello scrittore “imaginifico”, del poeta-soldato, del Comandante, assume in questo 2023 un valore nuovo. D'Annunzio ci ha lasciato in eredità le sublimi liriche alcionie, le pagine forti del Fuoco, quelle sensuali del Piacere, ma anche quelle drammatiche e intimistiche del Notturno. Una sorta di “commentario delle tenebre”, quest’ultimo, abbozzato durante il primo conflitto mondiale e pubblicato, dall’editore Treves, nel novembre del 1921, poco più di 100 anni fa.

È il libro in cui d’Annunzio, l’Ariel armato, il raffinato letterato arruolatosi volontario, convinto nazionalista, determinato interventista e instancabile sostenitore della libertà dei popoli, si avvale della propria arte scrittoria per “trasmettere”, con l’intensità e l’incisività che la contraddistingue, immagini, sensazioni e sentimenti che egli vive nell’ebrezza e nell’orrore della guerra. Lo scrittore e poeta, come fotogrammi di un vecchio film, fa così scorrere, attraverso un linguaggio senza tempo e senza spazio e uno stile paratattico e spezzato volutamente elevato, episodi di forte impatto emotivo, intrisi di violenza, di tragicità, di sofferenza. E fa scorrere volti di madri affrante, di ufficiali straziati dalle bombe, di giovani imberbi votati al sacrificio per un ideale che a malapena conoscono. Le immagini, create dalle parole, diventano ancora più vivide quando il poeta giunge a sperimentare su se stesso anche i momenti più forti del dolore altrui, come nel caso del giovane militare ferito, di origine abruzzese, Giovanni Federico.

Di lui, d'Annunzio scrive nell’Annotazione: «La sua povera carne è la mia povera carne. Non è coperto se non dei brandelli della sua camicia rozza; e le pudende palesate aumentano il ribrezzo e la miseria e l’innocenza e la compassione e il sentimento sacro della genitura che si spezza. Mia madre per la mia bocca gli parla come gli parlava sua madre. E il più lieve dei suoi sorrisi infantili appare all’estremità del suo strazio». Ebbene, è trascorso un secolo dalla stesura di questo passo diaristico che va ben oltre il suo valore letterario, ma niente è di più tragicamente attuale. Il dolore fisico, l’immagine incombente della morte, lo strazio di chi assiste ad assurde brutalità e a distruzioni in una nazione in guerra, l’Ucraina, ci sono raccontati ogni giorno. La pietas provata e cantata da d’Annunzio ha ancora, comunque, il sopravvento, in Europa e nel mondo.

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